Novembre 18, 2019 Studio Associato

Tecnico informatico in Germania. “In Italia se lavori resti povero. È un Paese che privilegia chi è ricattabile e non qualificato”

“Per tanti anni ho accettato di tutto, a ogni condizione, pur di mettere in tasca qualche soldo. Poi, qui in Germania, ho scoperto che qualcuno era disposto a investire su di me. E adesso l’ho capito: meglio disoccupati che senza dignità”. Emanuele Caputo, 37 anni, fa il tecnico informatico in una grossa multinazionale alle porte di Monaco di Baviera. Viene da Napoli, dove ha tentato senza successo di trovare un impiego nel proprio campo. “All’università non mi trovavo, perché il mio approccio è sempre stato pratico. Perciò ho frequentato due corsi di formazione professionale, uno da gestore di siti internet e un altro da tecnico sistemista. Al momento di cercare lavoro, il deserto: tutti volevano esperienza pregressa, di praticantato non se ne parlava”. E non va meglio nemmeno quando, nel 2011, sceglie di trasferirsi a Milano. “Vivevo a casa di mia sorella arrangiandomi come venditore di pacchetti assicurativi o contratti di fornitura energetica, anche porta a porta, nella speranza di poter esprimere il mio vero potenziale. Ne sono uscito con tanto stress e pochi soldi in mano”. Così, a 31 anni, “esausto dalla mancanza di opportunità”, lascia tutto e sale su un treno per Monaco.

“Avevo in mano un diploma C1 di tedesco, preso a Napoli quando ancora non immaginavo di partire”, racconta. “Nonostante ciò, l’inizio è stato difficilissimo: i primi sei mesi lavoravo per un’agenzia interinale svolgendo qualsiasi tipo di mansione, dal netturbino fino al corriere e all’uomo delle pulizie. Non avevo nemmeno un alloggio stabile, vagavo per ostelli. Poi ho trovato un lavoro più consono alle mie inclinazioni, a sostituire postazioni di lavoro per conto di una grossa azienda committente”. Dopo un anno e mezzo, però, Emanuele si rende conto che il suo ruolo non gli consente di crescere: “Ma ormai avevo 34 anni, a quell’età è difficile cambiare lavoro. In Italia sarei stato fuori mercato per chiunque”. In Germania, però, esistono scuole di riqualificazione professionale apposite, promosse dall’Agenzia federale del lavoro. “Mi sono licenziato e ho aderito a un programma per ottenere il diploma di integratore di sistemi informatici. Per due anni ho seguito i corsi a tempo pieno, con sei mesi di tirocinio. Per mantenermi avevo il sussidio di disoccupazione, ma anche un contributo specifico per il pagamento dell’affitto, per un totale di oltre mille euro al mese”.

Ancor prima di terminare i corsi, racconta, aveva già ricevuto varie offerte. “Non avevo bisogno di cercare: i cacciatori di teste mi trovavano su Linkedin e Xing, un social diffuso in Germania. Ho iniziato a lavorare nella mia attuale azienda prima di ottenere il diploma”. Lo stipendio è ottimo: “Un tecnico informatico alle prime armi, qui, può già percepire 40mila euro lordi l’anno, al netto di eventuali extra forniti dal datore di lavoro. Ma non si tratta solo di soldi: qui c’è la consapevolezza che un’azienda funziona solo se funzionano i dipendenti, e i dipendenti, a loro volta, funzionano se non si pretende troppo da loro. Forse ho avuto fortuna, ma non mi sembra vero di guadagnarmi da vivere finalmente con quello che so fare, senza consumarmi in lavori sfiancanti o sentire la pressione di chiudere più contratti possibile. Ecco, per quanto riguarda il lavoro interinale non c’è differenza: era un massacro fisico e psicologico, proprio come in Italia”.

Emanuele in Germania ha trovato la propria dimensione, tanto che sta pensando di chiedere la doppia cittadinanza. “Uno dei maggiori limiti italiani è l’assenza di cultura della formazione professionale. Qui, dopo le superiori, esiste un programma di avvicinamento al lavoro (Ausbildung) che ha la stessa dignità degli studi universitari. Non posso non arrabbiarmi verso un Paese che dà scarso valore al merito, alla competenza e al talento, costringendo tanti giovani a emigrare dove invece si richiede forza lavoro qualificata. Si parla tanto di digitalizzazione, ma poi non si investe per nulla in formazione e impiego di informatici: si privilegiano lavoratori non qualificati, molto più economici e più facilmente ricattabili”. Per questo, almeno per ora, non considera l’idea di tornare: “Tornerei soltanto alle stesse condizioni che ho qui, in termini di stipendio, ambiente e qualità della vita. Non lo vedo possibile, almeno non ora. Ma se le cose non cambiano, sempre più giovani andranno oltre confine per rimanerci, al riparo da mancanza di prospettive, disoccupazione o, peggio ancora, dall’umiliazione di lavorare ed essere comunque poveri, com’è successo a me per tanto tempo. Per fortuna, alla fine, ho scelto la dignità”.

 

Paolo Frosina da Il Fatto Quotidiano

 

 

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